sabato 26 giugno 2010

Recensione di Electric Dream di Marco Pavin, 2001


Credo che stia accadendo qualcosa di assolutamente interessante nel campo della musica contemporanea: i compositori classici, provenienti dal mondo delle accademie, stanno riavvicinandosi alla musica popolare.
La cosa in se non dovrebbe in realtà sorprendere, in quanto anche nei tempi passati la musica “alta” ha sempre cercato nuove idee e soluzioni nel calderone della musica popolare, utilizzandola come una fonte di idee e di soluzioni inesauribili da distillare e da adattare per creare la nuova musica classica. Questo collegamento però era andato in crisi nel novecento, i compositori (e gli artisti in generale) avevano considerato l’arte come un elemento di rottura con la società, scollegandosi da ciò che ci poteva essere di “basso” e di popolare, arrivando addirittura ad affrancarsi dal rapporto e dal consenso/dissenso del pubblico.
Perché dico questo? Perché da diverso tempo sto notando da parte di questi compositori un interesse crescente verso uno strumento che da più di cinquant’anni sta segnando il corso e il destino della “popular music”: sto ovviamente parlando della chitarra elettrica, strumento rock per eccellenza nonché perfetto sinonimo di rumore, ribellione e quanto vi possa essere di più lontano dall’idea di accademia e di Conservatorio. Perfetto esempio di questo nuovo interesse per uno strumento e una musica popolare da cui attingere per generare nuove forme di musica e arte contemporanea è questo cd, Electric Dream, del chitarrista padovano Marco Pavin. Il titolo, quasi azzeccato, io parlerei più che di un sogno elettrico di un “corpo elettrico” vista la forte valenza fisica del suono che ospita, rimanda immediatamente al suono elettrico, sono cinque composizioni, quasi una vera e propria monografia dei brani disponibili per questo repertorio, che vanno dall’ormai “classico” Electric Counterpoint” di Steve Reich (di cui abbiamo già parlato nel blog), alla quasi texture sonora ambientale del secondo brano “Virtual Melodies” di Michele Biasiutti , alla dedica a Jimi Hendrix “J…X” di Lucio Garan, alla bellissima, hendrixiana e potente “’Scuse me” di Eric Chasalow, fino alla “Electric Dream” conclusiva dello Stesso Pavin.
Un disco che sicuramente merita di stare in discoteca a fianco di Electric Guitar Solo di Mauro Franceschi, a The Stroke that kills di Seth Josel, a “John Somebody” di Scott Johnson, Playing Guitar: Symphony #1 di Tim Brady e a Electric Counterpoint/Different Trains di Steve Reich.
Bellissimo, ne voglio ancora! Sono davvero felice di vedere e ascoltare come la chitarra cosmica Jimi Hendrix si stia facendo, faticosamente ma inesorabilmente, largo oltre il pantheon del rock.

Empedole70

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