giovedì 28 gennaio 2010

Intervista a Guido Fichtner terza parte


Lei è uno dei quattro chitarristi del Guitalian Quartet, vuole parlarci di questa iniziativa? Come è nato il quartetto? Come procede la sua attività?




Il quartetto nasce da una profonda amicizia che ne lega i suoi componenti. Eravamo compagni di studi, siamo diventati professionisti ognuno con la sua carriera, eravamo amici e lo siamo rimasti per oltre 20 anni e per finire, in barba alle difficoltà logistiche, abbiamo cominciato questa avventura insieme. Le difficoltà sono tuttora enormi sia per le prove che per le comunicazioni dato che abitiamo sparsi per l’Italia fra Milano, Roma, Fermo e Palermo. Ma ci unisce una grande unità d’intenti ed una enorme affinità musicale unita ad una preparazione tecnica molto simile; per il resto Internet fa miracoli. Mi sento di affermare che questo è il miglior progetto artistico in cui mi sia mai cimentato ed il risultato musicale è sempre emozionante ed entusiasmante. Con un po’ di sacrifici (ma neanche tanti) riusciamo a vederci con regolarità continuando a progettare cose per il futuro.

Mi ha molto impressionato il cd live, come è avvenuta la registrazione? Sembra registrato in “presa diretta”, tipo “buona la prima”, come è stato registrare davanti al pubblico?




Non è stato diverso dal suonare davanti al pubblico. Ai microfoni non ci si badava, si badava di più alle sensazione provenienti dalla sala. Per esempio il silenzio del pubblico è stato per noi il miglior segnale che tutto funzionava bene. E poi restava sempre la sicurezza che se il materiale fosse stato scadente, lo avremmo potuto cestinare.

Quale significato ha l’improvvisazione nella sua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?




L’argomento mi trova impreparato. Nella mia personale ricerca l’improvvisazione non occupa un posto importante anche se la considero una mia lacuna. Tuttavia non l’ho mai sentita come una vera esigenza ed è per questo che l’ho trascurata. Sono sempre stato attratto maggiormente dall’idea di scavare nella storia e nelle possibilità esecutive della chitarra che in quella di cercare modi d’espressione diversi sullo strumento come improvvisare, ma anche comporre. Sono convinto tuttavia che l’improvvisazione dovrebbe trovare più spazio nella crescita musicale degli studenti per liberarne la capacità espressiva, anche in ambito strettamente classico, e stimo tantissimo chi, come l’amico François Laurent, ne fa un obiettivo didattico.

Le confesso che ascoltando i suoi cd mi ha particolarmente colpito la disinvoltura e la sensazione di sicurezza che traspare dal suono della sua chitarra, insomma lei sembra perfettamente a suo agio, anche nei passaggi più difficili … quanto è importante il lavoro sulla tecnica per raggiungere a questo livello di “sicurezza”?




La tecnica è tutto. Senza di essa non si esprime nulla se non la fatica di suonare (che non è interessante ascoltare). Comunque la tecnica non è solo una lotta col metronomo per raggiungere il record di velocità su scale ed arpeggi, non è solo studiare le legature ed il barrè, ma anche ricerca sui modi di espressione: fare un crescendo ben progressivo, un diminuendo rallentato, avere la stessa qualità di suono su una frase, con i respiri al momento giusto. E questa tecnica va studiata, non basta avere le mani che vanno o le scale a mitragliatrice, bisogna saper fare un vibrato, una esitazione, un accelerazione. Se qualcuno mi dice: “come hai suonato bene stasera”, io ringrazio ma nella testa mi si accende un campanello d’allarme che dice: “questo signore badava a come suonavo” ovvero non ascoltava la musica. Per me questo ha sempre significato: Guido, non hai suonato bene, studia meglio e spera che la prossima volta si accorgano di quello che hai suonato e che ti dicano: “che bello quel pezzo!”. E questo indicherà che la tecnica sarà a posto, tutta la tecnica!




continua domani

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