mercoledì 21 maggio 2008

IL LIUTO di Andrea Bornstein

Riportiamo il capitolo che Andrea Bornstein dedica al liuto nel suo manuale Gli strumenti musicali del Rinascimento, ringraziandolo per averci concesso di ospitarlo nel nostro blog. Avvertiamo chi fosse interessato che il testo integrale del manuale è disponibile sul web al seguente indirizzo
Jacopo da Montaio

Il liuto

Il liuto è il più perfetto instrumento di tutti gli altri.
Questa frase di Giovanni Maria Lanfranco (1533) esemplifica bene tutta la considerazione nella quale era tenuto questo strumento nel Rinascimento; sentimento che fu durevole nel tempo, perché viene ripetuto, senza notevoli variazioni, da Alessandro Piccinini, quasi un secolo più tardi, nella introduzione «A gli studiosi» della suo Intavolatura di liuto et di chitarrone, Libro primo (Bologna 1653):
Fra tutti gli stromenti musicali, quanto sia il liuto celebre e degno, non è alcuno per così mediocre e intelligente e versato che sia nella musica, il qual non sappia e conosca, sì per l'eccelenza e soavità della sua melodia, come per la musical sua perfettione.
Strumento solistico per eccellenza, il liuto, con la sua maneggevolezza, il suono dolce e contenuto unito alla capacità di eseguire qualunque brano polifonico in qualsiasi tonalità, era lo strumento privilegiato dai nobili dilettanti, che per tutto il XVI sec. furono i veri fruitori – nonché esecutori
della musica colta. È forse proprio per questo che le prime composizioni strumentali originali
pubblicate (cioè non arrangiate da brani vocali preesistenti) furono proprio per liuto: infatti la parola «ricercare», che indica il primo genere di composizione con carattere prevalentemente strumentale, appare per la prima volta nell'Intabulatura de lauto, Libro primo di Francesco Spinacino, pubblicato a Venezia nel 1507 dallo stampatore Ottaviano Petrucci.
Il liuto rinascimentale classico ha la cassa armonica piriforme costituita da un numero variabile di listelli di legno – detti «doghe» – fissati tra loro mediante strisce di pergamena, di carta o di lino: una tecnica che venne ripresa anche nei primi modelli di viola da gamba per congiungere le fasce laterali al piano armonico e al fondo. Il piano armonico reca al centro una rosetta traforata, chiamata dai tedeschi Stern (stella) e verso il fondo è incollato il ponticello che regge le corde; queste sono di budello di pecora suddivise in sei «cori», tutti doppi meno il più acuto, che è singolo. Le corde hanno la loro lunghezza vibrante (detta modernamente diapason), delimitata dalla parte della cassa armonica dal ponticello e dalla parte del cavigliere dal capotasto, fatto generalmente di osso o di legno molto duro e munito di tacche più o meno profonde dove si incastrano le corde. Entrambi gli estremi del diapason erano detti anticamente «scannelli», anche in riferimento alla viola da gamba. Sul largo manico sono creati i tasti, in numero variabile da sette a nove, fissando su di esso dei legacci sempre di budello. Il cavigliere, ripiegato all'indietro, forma quasi un angolo retto con il piano della tastiera. Il liuto, nonostante l'aspetto massiccio, è di costituzione estremamente fragile: chiunque non abbia mai osservato uno strumento originale o una buona copia da vicino, resterebbe stupito constatandone la leggerezza in confronto alle dimensioni. Bisogna considerare che le doghe che formano la «pancia» possono essere sottili anche un millimetro, mentre il piano armonico è normalmente spesso tra 1,5 e 5,5 mm. Dovendo sostenere la tensione delle corde, quest'ultimo è rafforzato internamente da listelli incollati perpendicolarmente all'asse di simmetria dello strumento, detti «catene». Il numero delle catene varia da modello a modello, restando comunque sotto la decina. Anche il numero delle doghe può variare moltissimo, fermo restando che minore è il loro numero, migliore risulta essere la qualità sonora dello strumento. Questo fatto è sottolineato in un metodo di autore inglese anonimo
dedicato al liuto:
Gli strumenti di Bologna e gli altri liuti di qualità hanno solamente sette fasce, al massimo nove o undici, nonostante vi siano esemplari olandesi che, invece di seguire questi esempi, montano più o meno trentasei o trentotto fasce. La ragione per la quale sono migliori i liuti costruiti con meno fasce sta nel fatto che questi abbisognano di una minor quantità di colla, e lo strumento con più colla è più sordo. (1)
Dunque gli artigiani (i «liutai» appunto) privilegiavano nella costruzione dei loro strumenti la leggerezza, portando a due conseguenze opposte: da una parte i liuti erano strumenti estremamente raffinati nel timbro e dotati di un suono pieno e rotondo, sebbene non estremamente potente; dall'altra, purtroppo pochissimi strumenti rinascimentali sono giunti integri fino a noi. Molti di quelli conservati nei musei sono stati modificati in epoche successive per poter essere ulteriormente utilizzati. Generalmente i manici sono stati sostituiti con altri più larghi, per poter contenere un maggior numero di cori. Non a caso gli strumenti ancora integri hanno tutti un basso numero di doghe; proprio perché erano i liuti migliori a essere scelti per le modifiche, mentre gli strumenti mediocri sono andati distrutti. Il liuto fu portato in Europa dagli arabi verso la fine del XIII sec.: il suo nome arabo è infatti al'ud, che venne adottato – con opportune trasformazioni – da tutte le lingue europee. Nonostante ciò, nel Rinascimento le vere origini dello strumento erano del tutto ignorate. Vincenzo Galilei (1581) a questo proposito dice:
Fu portato a noi questo nobilissimo strumento da Pannoni con il nome di laut […] Volendoci con esso dinotare essere degli estremi suoni musicali capace, (2) e con l'aiuto de tasti di quelli ancora di mezzo […] Tornando alla timologia del liuto, dico essere stati altri di parere, ch'egli fusse detto lauto; cioè sontuoso, magnifico, nobile e splendido..
Nel XIV sec. il modello europeo non si discostava ancora dal liuto arabo dotato di quattro corde singole, venendo ancora suonato solo con il plettro. Fu nella seconda metà del '400 che lo strumento subì un'evoluzione verso la forma classica, intonata per quarte attorno a una terza: un tipo di accordatura che sarà adottata anche dagli altri principali strumenti a corda. Una delle prime descrizioni del liuto rinascimentale è contenuta nel Liber Viginti Artium (1460 ca.) dello studioso ebreo praghese Paulus Paulirinus; lo strumento viene chiamato cithara, ma ci sono pochi dubbi che si tratti del liuto:
Il liuto è uno strumento musicale che si discosta generalmente dagli altri per la delicatezza del suo timbro. Ha cinque cori di corde, sempre doppi, e nove tasti sul manico creano le diverse note mediante l'applicazione delle dita. Il suo corpo concavo fa le veci del petto umano; la rosetta della bocca; il manico è simile alla trachea, e le dita, correndo su esso, fanno la funzione dell'epiglottide; il pizzicare delle corde è simile alla compressione dei polmoni che fa uscire la voce, ma il budello delle corde è come la lingua mediante la quale si articolano i suoni. Il liutista è l'intelligenza che produce il canto.
Dunque lo strumento come metafora del corpo umano: un concetto caro all'estetica rinascimentale, che teorizzava la superiorità del canto e misurava la bontà di uno strumento in proporzione alla sua capacità di imitare la voce umana. Al di la di ciò, si nota che il liuto era già dotato di cinque cori di corde, che venivano pizzicate con un plettro, come ci informa Paulirinus in un passo successivo del suo trattato; non ci sono invece riferimenti all'intonazione.
Informazioni molto più dettagliate sulla «lyra chiamata comunemente liuto» ci vengono date da Tinctoris (1487 ca.):
Le corde sono pizzicate dalla mano destra sia con le dita che con il plettro […] Un ordinamento di cinque, a volte sei, corde principali fu adottato per la prima volta credo dai tedeschi: cioè le due di mezzo intonate per terza, e le altre per quarta […] Inoltre, per ottenere un suono più forte, un'altra corda intonata all'ottava può essere aggiunta ad ognuna delle principali, eccetto che alla prima.
Dunque alla fine del '400 il plettro era ancora in uso, ma incominciava a emergere la tecnica di pizzicare le corde con le dita, probabilmente per poter condurre più voci sullo strumento: infatti Tinctoris parla dell'uso polifonico del liuto con un'ammirazione degna delle novità:
Altri (la qual cosa è molto difficile) eseguono da soli composizioni non solo a due voci, ma anche a tre o a quattro con grande perizia. Per esempio Orbus il tedesco […] I tedeschi sono celebri per suonare in questo modo.
Il maestro tedesco che Tinctoris chiama «Orbus», è con ogni probabilità il musicista Conrad Paumann (1415 ? – 1475), cieco dalla nascita, a cui è attribuita da Virdung (1511) l'invenzione dell'intavolatura per liuto tedesca. Lo strumento che Virdung descrive ha sei cori, tutti doppi meno il cantino; è intonato in la per quarte e con la terza centrale. La composizione dei sei cori data da Virdung è quella definitiva, testimoniata da molte altre fonti: benché egli fornisca anche l'altezza assoluta di ciascuna corda, queste hanno solo un valore relativo, perché era pratica corrente intonare questi strumenti basandosi esclusivamente sulla tensione della corda più acuta e quindi intonare le altre di conseguenza. Bisogna poi aggiungere che il diapason dei liuti variava molto da modello a modello, potendo andare, per strumenti di medie dimensioni da 60 a 74 cm ca. Ogni coro del liuto ha un nome ben preciso; ne riportiamo qui la nomenclatura:



Questa nomenclatura è chiaramente concepita per un liuto a cinque cori, visto che la mezzana è equidistante dal bordone e dal canto, e la Quintsaytt è in realtà la sesta corda. I nomi francesi dei cori indicano che il loro modo di numerare le corde procedeva in senso contrario, così come la loro lettura dell'intavolatura. Con l'affermarsi del liuto come strumento solistico per eccellenza, fiorirono in Italia molte botteghe artigianali specializzate nella costruzione di questi strumenti. I maestri liutai erano nella stragrande maggioranza di origine tedesca, e in genere si tramandavano l'arte di padre in figlio, provocando odiernamente alcuni problemi di identificazione fra membri della stessa famiglia con lo stesso nome di battesimo. Sono da ricordare la famiglia Duiffopruchar (italianizzazione di Tieffenbrucker), il cui capo stipite Magno si stabilì a Venezia verso il 1500; i suoi successori sono segnalati a Bologna, a Padova e a Genova. Sempre a Bologna erano attivi Hans Frei, Laux Maler e il suo presunto allievo Max Unverborden, che si trasferì in seguito a Venezia, facendo conoscere in questa città i liuti con cassa allungata e lungo diapason, tipici della scuola bolognese, dai quali forse ebbe origine il chitarrone. Riguardo alla letteratura liutistica del XVI sec., oltre alle forme tipiche per lo strumento, quali il «tastar de corde» o il «recercar», le prime raccolte dedicate a questo strumento consistevano di brani vocali e di danze intavolate: spesso nei brani vocali la prima voce veniva cantata dallo stesso esecutore che eseguiva sul liuto le altre voci. Nel primo Rinascimento, maestro di questa pratica fu il veronese Marchetto Cara (prima metà del XV sec.– 1530): dal 1494 al servizio della famiglia Gonzaga a Mantova, era famoso in tutte le corti
italiane per il suo «cantare al liuto». Egli stesso componeva le musiche che eseguiva (quasi tutte frottole), che raggiunsero una tale fama da essere pubblicate in ben undici volumi dall'editore Petrucci dal 1504 al 1514. Ottaviano Petrucci fu il primo editore musicale italiano: fu inventore di un suo particolare metodo di stampa e a lui si deve la pubblicazione di tutte le intavolature per liuto uscite in Italia nella prima metà del XVI sec. Petrucci infatti si fece concedere nel 1498, dalla Signoria di Venezia, il privilegio di «stampar canto figurato de intabolature d'organo e de liuto», monopolizzando un mercato che si rivelò ricchissimo: infatti non sfruttò mai il suo diritto di pubblicare musica organistica, e stampò solo musica vocale, per piccoli gruppi strumentali e appunto per liuto. Le altre raccolte liutistiche italiane contenevano sia danze che arrangiamenti strumentali di composizioni vocali; sono da ricordare, oltre alla già citata raccolta di Spinacino (1507), la Intabulatura de lauto, Libro quarto (1508) di Joan Ambrosio Dalza, che consiste essenzialmente di danze, le numerose raccolte di Francesco da Milano e di Joan Maria da Crema. M.W. Prynne sottolinea il carattere internazionale che assunse la musica per liuto verso la metà del secolo:26 le opere di Francesco da Milano furono pubblicate anche in Francia e in Olanda, e, per esempio, le composizioni del liutista ungherese Bakfark videro la luce a Lione, Cracovia, Parigi e Anversa. Bisogna dire però che era rarissimo che in Italia si pubblicasse musica composta all'estero, dato che gli italiani erano più propensi, nella seconda metà del secolo, a esportare arte più che ad importarla.
In Germania la stampa delle prime raccolte liutistiche fu preceduta da numerosi manoscritti in intavolatura tedesca, dedicati normalmente sia a brani liutistici, sia a consort di viole da gamba o – più raramente – da braccio. L'accomunare questi strumenti doveva essere pratica corrente in questo paese, visto che i libri pubblicati da Hans Gerle (Norimberga 1535 e 1546) sono dei veri e propri trattati per istruire i dilettanti della musica nel liuto e nelle viole (sia da gamba sia da braccio), dando dettagliate istruzioni sull'uso dell'intavolatura tedesca. Non deve sorprendere l'assenza della Spagna da questo panorama europeo, perché il liuto non vi era in uso, sostituito dalla vihuela de mano: uno strumento simile alla chitarra, ma accordato esattamente come il liuto, del quale svolgeva la stessa funzione culturale. L'identità di intenti tra la vihuela e il liuto è sottolineata dal teorico spagnolo Bermudo (1555), che definisce il liuto la vihuela delle Fiandre. Tutte le musiche precedentemente viste sono stampate in intavolatura, perché – come abbiamo già detto – questo era il metodo più agevole per leggere le composizioni polifoniche sugli strumenti a pizzico: in Germania perfino per la viola da gamba si usavano normalmente le intavolature. Il liutista doveva comunque essere in grado di eseguire musiche scritte in notazione mensurale e messe in partitura. Esistono addirittura alcune testimonianze sulla capacità dei liutisti di leggere in libri nei quali le voci tre o quattro – erano scritte sulle due facciate contigue di un libro aperto: Disertori cita un quadro, datato 1550 e conservato all'Accademia di Brera a Milano, in cui è raffigurata una liutista che legge da uno di questi libri a parti separate. Un altro dipinto conservato a Vienna, datato 1530, mostra un concerto di tre dame: una canta, un'altra suona il traverso e la terza il liuto; le due strumentiste leggono da un unico libro. La verosimiglianza di questi due quadri è tale che non sembrano affatto opera di fantasia, anzi in entrambi è possibile leggere e trascrivere le composizioni musicali raffigurate.
La tendenza del liuto a evolversi portò all'aggiunta di cori nel grave, che come abbiamo già detto – provocarono un allargamento del manico e la sua sostituzione nei migliori strumenti costruiti a sei cori, che infatti ci sono pervenuti tutti predisposti per otto o più cori. L'unico liuto attualmente conservato nell'assetto originale a sei cori fu costruito nel 1580 dal liutaio tedesco Georg Gerle (1548–1598?) ed è conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il primo liuto originale a sette cori che è giunto a noi è contemporaneo al precedente; fu costruito da Giovanni Hieber ed è attualmente al museo degli strumenti musicali di Bruxelles. Il napoletano Scipione Cerreto (1601), parlando del liuto e della sua intavolatura, prende in considerazione solo il «liuto a 8 ordini», in cui i due cori più gravi sono intonati rispettivamente Do1 e Re1. Gli altri sei cori
seguono la tradizionale accordatura in sol. Cerreto non specifica se gli ordini delle cordesiano doppi o singoli. Nello stesso periodo, Banchieri (1609) descrive invece due liuti con soli sette cori di corde: un normale modello in sol, a cui è stato aggiunto un coro grave in Fa1, e un «leuto grosso alla quarta», sempre con sette cori, ma intonati


Praetorius (1619) ripercorre l'evoluzione dello strumento, che partito con quattro soli cori, ha visto la loro quantità aumentare, fino ad arrivare – ai suoi tempi – a un numero variabile da sette a nove. Il musicista e teorico tedesco distingue sette taglie di liuto, ognuna caratterizzata da una diversa intonazione della Quintsaitt (cantino). Una nomenclatura dei liuti molto simile a quella di Praetorius è usata nell'inventario degli strumenti posseduti dal banchiere Raimund Fugger ad Augusta (1566), che elenca ben 83 liuti, con grande varietà di grandezze, materiale impiegato e struttura. Ovviamente l'interesse di Praetorius era ormai spostato sui nuovi strumenti – chitarrone e tiorba – che, dall'inizio del XVII sec., sostituirono progressivamente il liuto, specialmente nelle sue funzioni di accompagnamento del canto e di esecuzione del basso continuo. Mersenne (1636) addirittura mostra e descrive un liuto senza bordoni con ben dieci cori di corde, dicendo che si può arrivare fino a dodici, ma non oltre, per non incrinare la tavola. L'idea di aggiungere corde fuori della tastiera per ottenere un buon timbro sulle note più gravi è relativamente antica: sempre nell'inventario di Fugger è citato un «liuto in osso di balena con due manici». Il musicologo F. Hellwig ha illustrato dettagliatamente tutti i sistemi usati nel corso di circa un secolo e mezzo per allungare il diapason delle corde fuori dalla tastiera. Questi sistemi possono essere riassunti come segue:

Strumenti con un solo ponticello e due o più capotasti

Oltre ai liuti con due manici, come quello di Fugger, esistevano semplicemente strumenti con due caviglieri contigui, ognuno dotato di un proprio capotasto: si poteva allungare in questo modo il diapason dei bordoni.

Strumenti con più di un capotasto e ponticello

Questo tipo di liuti, non solo non ha i capotasti allineati, ma anche i ponticelli sono due, incollati al piano armonico a distanze differenti. A Vienna sono conservati due strumenti di fattura veramente originale e molto probabilmente unici. Il primo è un liuto con la cassa molto allungata e con una rosa per ogni gruppo di corde. I due ponticelli sono così distanti tra loro, che il diapason dei due gruppi di cori è rispettivamente 68,8 e 116,8 cm. L'altro strumento di Vienna non è un vero e proprio liuto, dato che la cassa non è piriforme. Ogni corda ha in pratica un proprio ponticello, in modo che le loro lunghezze decrescono contemporaneamente al loro spessore. Questo strumento è citato dall'inventario di Graz (1596) che lo indica come «un grande e strano liuto con due caviglieri e tre rosette».

Note

1. Anonimo, Mary Burwell Lute Tutor (ripr. in fac-simile) cap. II (Leeds 1974).
2. Ut e La erano gli estremi dell'esacordo nella mano guidoniana, per cui il termine metaforicamente avrebbe indicato la capacità dello strumento di eseguire tutte le note.

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